AGITU – IL SORRISO ETIOPE NELLA VALLE DEI MOCHENI

AGITU – IL SORRISO ETIOPE NELLA VALLE DEI MOCHENI

di Antonella Marcantoni

È stato durante un pomeriggio di Agosto dell’anno appena chiuso che ho conosciuto Agitu.

La macchina di Gipi scivolava su e giù per le strade della Valle dei Mòcheni, in Trentino, come fa l’olio quando scorre su un tagliere in legno, al quale si cambia per scherzo il verso dell’inclinazione. Avevamo appena finito una serie di tornanti, dentro un bosco verde, e dopo aver percorso una discesa, appena aperta sulla valle, ci siamo fermati e siamo scesi.

Eravamo arrivati a Frassilongo.

Mi ero fatta coinvolgere dalla cortesia di Gipi e del suo peregrinare a caccia di eccellenze enogastronomiche per vedere questa parte del Trentino e grazie a lui ho conosciuto diverse persone dalle scelte e dal coraggio fuori dall’ordinario.

Agitu era una delle tappe di questo tour, una delle donne speciali di quel viaggio. Di lei sapevo poche cose: era già comparsa infatti nei discorsi del mio amico gourmet ma non avevo dato un viso a quella storia.

Era la pastora etiope del Trentino, dove aveva il suo allevamento.

Ci ha accolto con calore, con un sorriso grande, bello, sereno e con birra e formaggio: il suo. Era una bella donna, di quella bellezza che trascende e accompagna l’aspetto fisico, e che si aggiunge ad una personalità di qualità rare.

Il divino coraggio, la stabile fermezza, la prospettiva dello sguardo e quel sorriso meraviglioso.

Il mio stupore e ammirazione verso di lei sono cresciuti piano piano che i discorsi si sviluppavano: questa donna aveva trovato tra i Mòcheni e nel suo lavoro di allevatrice di capre e produttrice di formaggi il suo futuro e la propria casa. Il proprio posto nel mondo.

Sembrava quasi farne parte da sempre: lasciato alle spalle il suo passato di rifugiata politica, lei stava in quel suo piccolo negozio tra le Alpi come l’acqua sta al mare.

Nell’osservarla, non si poteva non ammirare. Non chiedersi come avesse fatto a rimenare così forte, salda, bella, fiera e aver costruito il suo presente e futuro di imprenditrice.

Mentre il mio cervello cercava di elaborare l’esempio che avevo di fronte, di come diventi casa quel posto in cui realizzi i tuoi progetti e non per forza quello da cui provieni, Agitu raccontava a Gipi e a me il suo futuro. Aveva visione d’impresa, aveva tracciato un progetto fatto di passi sempre più importanti: il negozio a Trento già avviato, la vecchia scuola, dietro casa, acquistata che stava ristrutturando per farne un b&B d’ispirazione bio.

Io l’ascoltavo come si ascolta qualcosa di eccezionale: carisma, senso di appartenenza a quella sua terra e al suo lavoro, determinazione, bellezza.

Avevo davanti a me una donna etiope che partita da niente aveva costruito qualcosa di importante: ce l’aveva fatta da sola e aveva trovato la sua identità, una collocazione, facendone un’impresa e un progetto che cresceva.

Avevo di fronte una persona che raccontava la sua storia diversa dal comune come fosse normale e naturale.

Lei era pienezza.

Nello scegliere il mio acquisto, mi aveva detto che le sue creme derivavano dal quello che le aveva insegnato sua nonna, per poi divagare sul come dai formaggi era passata anche alla cosmesi.

Aveva preso dalla sua vita passata e aveva unito i pezzi più buoni per darsi e dare futuro.

Nel proseguire il viaggio, ricordo di aver tormentato il mio autista con domande su tutte le varie conoscenze di quel giorno, in particolare però su Agitu. Perché di lei non poteva che sorprendere la singolarità. Stupiva perché da sola aveva fatto passi enormi e sorrideva ancora, un sorriso profondo che possiedono quelli che hanno attraversato le brutture della vita e sono rimasti in piedi integri, e ce l’hanno fatta, senza perdere umanità.

Allorché poi ho provato i suoi prodotti, le avrei voluto scrivere la mia meraviglia. Ma non l’ho fatto perché credevo che, prima o poi, sarei potuta ripartire per un giro lassù. Il ricordo di lei mi ha accompagnato in tutti questi mesi, ogni volta che guardavo il logo della capretta felice sulla mia crema, ogni volta che nel metterla la pensavo. Sarà forse un rammentare sciocco…

Il 29 dicembre è stata una giornata terribile: un black-out e un terremoto che avrebbero potuto compromettere una consegna di lavoro, già minacciata da un cambio di rotta della mattina. Dopo cena, attraverso il messaggio whatsapp, Gipi mi informa che Agitu non c’è più.

Uccisa.

Ma che dici???

Dio no!

Sono rimasta ferma sul divano finché la giornata non è finita.

Immobile, incredula, impietrita, cercando spiegazioni a quello che era un omicidio, allora, dai contorni non chiari.

Morta. Uccisa.

La mente ha fatto lo strano scherzo empatico di provare tanta tanta amarezza nel saperla uccisa, nel sapere che aveva affrontato la morte da sola e per colpa di qualcuno.

Non era possibile. Le lacrime hanno iniziato a scendere e non si fermano ancora.

La mattina seguente, appena sveglia, sono andata a controllare se fosse veramente successo. Se era vero. E così per diverse mattine dopo.

Cosa fa male di questa storia?

Tutto.

L’assurdità del male compiuto, la matematica certezza che questo sistema penale consentirà a quella bestia assassina di farsi alcuni anni di carcere e poi, tra buona condotta e infermità mentale, sarà presto libero.

Il fatto che abbiamo perso una grande persona, una donna che con le sue forze aveva costruito un futuro fatto di bellezza, di cose buone, utili, fatte con quella sapienza che hanno gli esseri umani innamorati di ciò che fanno.

Abbiamo perso il suo sorriso. E credetemi: solo quello è qualcosa di incommensurabile.

Il male non si spiega e non si capisce. Per assurdo, si aspetta che passi il tempo e che il dolore provocato bruci meno.

E per quanto mi riguarda, davanti alla spietatezza e illogicità di questo assassino, non si perdona e non si dovrebbe neanche accettare che basti la reclusione, perché non basta a far passare la cattiveria che circonda l’azione, la tragedia di una donna uccisa a martellate e poi violata. Non basta! E non può bastare

Perché quello che fa male, male davvero, è la banale normalità con cui accadono fatti simili, i quali non hanno limiti né geografici, né culturali, né epocali. Se vuoi punire una donna: picchiala, stuprala, uccidila. Sei nel paese e in un mondo giusti, nessuno ti dirà o farà nulla.

Non centrano le comuni origini africani della vittima e dell’omicida.

Il destino è mediocre, invidioso e cattivo: a volte non basta superare una prova nella vita, a volte si accanisce e continua a imperversare portando via il valore di persone come Agitu.

Una donna, un capo donna e per giunta anche bella, era forse troppo per qualsiasi stupido uomo.

Sapere della sua fine è qualcosa che la mia mente non riesce ad accettare, non ci sono spiegazioni logiche che possano far smettere di scendere le lacrime nel pensarla e dare pace all’assurdità della sua morte, così feroce. Alla brutalità con cui è avvenuta, all’assenza totale di ogni forma di umanità nei confronti della donna e della persona.

Il suo ricordo va protetto, più di quanto la vita non abbia fatto con lei.

Mi spiace Agitu, mi spiace.