UN RAGAZZO IN CERCA DI UNA VITA

UN RAGAZZO IN CERCA DI UNA VITA

di Stefania Martani

Breve storia amara (ma potremmo addolcirla, se ce ne interessassimo) di un ragazzo disagiato

Questa non è una storia che riguarda il coronavirus, anche se lo sfiora di striscio, anche se la sindrome cinese fa da sfondo, paesaggio e quinta teatrale. Orrorifica storia, imbevuta di realtà e non finzione.
Federico (lo chiamo così) è un ragazzo sui 22-23 anni, Da quattro è chiuso in una comunità di Tivoli per un disturbo psichiatrico,
Federico l’ho conosciuto che di anni ne aveva 16, allegro, spensierato, anche se non aveva un padre (perso quando lui era piccolo) nè una madre presente visto che soffre a sua volta di un disagio che però tiene a bada. A supplire, un nonno, qualche parente, una zia, distante tuttavia, malgrado gli sforzi, dai bisogni del nipote,
Federico è cresciuto e, a un certo punto, siccome il fato sembra leccarsi le labbra di fronte ai più deprivati e fragili e bisognosi, è caduto in un giro sbagliato che gli ha spalancato l’abisso delle sostanze psicotrope. Servivano a dominare il suo baratro privato ma, come contropartita, hanno presentato un conto altissimo alla sua anima. Insomma Federico è scoppiato. Uscito fuori. Di testa. La morte del nonno lo ha definitivamente mandato alla deriva e lui è approdato, naufrago esanime, in una comunità.
Federico oggi sta in una struttura insieme a giovani a perdere come lui. Non ha quasi contatti col mondo. Nonostante un massiccio trattamento farmacologico – un cocktail di farmaci che farebbero invidia nel depository di un reparto di spdc – la sua vita è legata al palo. Con gli effetti di sempre, grasso in eccesso, disfunzione epatica, ricorso a patetici interventi riabilitativi (Yoga? Il sabato con Truffaut?). Progetti di vita? Nulla (c’è una legge apposita, ma qui le leggi le fanno rispettare solo se torna comodo). Niente fondi per vivere nel mondo.
Per tenerli lì dentro, però, le risorse e massicce si trovano sempre. Legioni gli adolescenti che, dopo aver stazionato per anni nei centri diurni, finiscono nelle comunità terapeutiche, Ma cosa hanno di terapeutico? Qual è l’obiettivo, il percorso, le tappe intermedie? Quando li interpelli ti dicono che è una strada difficile. È sempre difficile. Tutto è difficile.
Cosa c’entra il covid allora?
Federico da quando hanno dichiarato lo stato di pandemia permanente ha perso qualsiasi addentellato che lo legava al mondo esterno. Prima, qualche volta, poteva uscire, ora, se va a trovare la madre, l’unica persona che può vedere, al ritorno deve stare chiuso per una settimana nella sua stanza, che, l’ho vista sul cellulare, è più squallida del più squallido dei motel.
I contatti interni sono ridotti. Le attività sono scemate, Aveva trovato da fare pulizie in una palestra per qualche ora al mese, circa 36, per la somma irrisoria di 200 euro: gliel’hanno chiusa.
Federico patisce restrizioni da sempre ma adesso è soffocato, schiacciato, diamo i numeri noi, diciamo di sclerare noi dopo un week end bruciato in casa. Il tritacarne globale sta asfaltando queste categorie, in primis. I vecchi muoiono nelle rsa per abbandono (ma scusate, il termine esatto è covid), i ragazzi nelle comunità soffocano, sfioriscono, regrediscono, le patologie si aggravano.
Federico ieri è scappato. Non ne poteva più, Ha vagato per Roma, ha dormito in strada e oggi me lo sono vista recapitare a casa da mio figlio, che disarmato e ingenuo com’è, crede che io sia il genio della lampada, la fata turchina, il pozzo senza fondo da cui si cavano soluzioni, io, docente squattrinata con un figlio a sua volta problematico e un affitto a carico, quattro classi da seguire, una vita che strattono in avanti lasciando qualche brano attaccato agli spunzoni in cui si impiglia, perchè so che l’unica legge è muoversi, Ma tant’è, la buona fede ti disegna addosso miraggi.
Federico tremava, non prendeva farmaci da 36 ore, non aveva dormito ed era affamato.
Cosa faccio?, mi sono domandata mentre un’ondata di frustrante e vigliacca paura mi disfaceva le gambe in una tremula gelatina.
Tutti abbiamo paura del “matto”, paura come la mettono i matti. Tutto ciò che non si omologa, (anche il male ha scritto la Arendt è banale), ci terrorizza, E, nonostante abbiano abolito i manicomi, quelli strani continuiamo a concentrarli tutti in un luogo; non permettiamo loro di esprimersi, altro che inclusione, Non c’è solo la Merini che ha regalato al mondo il miracolo della sua poesia, ce ne sono tanti che, se pure devono ingoiare qualche pillola, potrebbero, se seguiti, se venisse mostrata loro un a strada, una prospettiva, arricchirci tutti, con i loro talenti. Genio e follia, recita il cliché.
Quindi anche la mia mente pusillanime ha provato paura mentre mi rimbalzava dentro come un pipistrello impazzito il pensiero che erano quasi 36 ore che Federico era scoperto – tremava. E sono scattata. Cosa dovevo fare?
Prima di tutto il Depakin che per fortuna era tra i farmaci, poi due Tavor a mò di tranquillante, Poi mangiare, non aveva mangiato, poi fumare, le sigarette, poi la stanza per farlo stendere un poco. Poi…poi..
Che altro? Ho chiamato la zia che mi ha attaccato il telefono. Ho chiamato la comunità, che mi ha detto di chiamare il 118. Il 118? E perchè? Perchè se no il ragazzo non rientra. E io dovrei fargli subire un altro trauma? Io ho avuto modo di osservare cosa è un tso, ho visto ragazzi con segni addosso e legati al letto, qui, alla asl 1, se vi interessa saperlo, Sono cose che segnano per sempre.
Ho chiamato lo psichiatra del csm che ha fatto appello al mio buon cuore – cerchi di farlo ragionare – e ha attaccato.

Allora sono corsa in farmacia per capire quanto costassero quei farmaci e se potevo aver accesso. Eh no, sono quelli forniti dalla Regione, occorre ordinarli, Sono corsa dal medico di famiglia per la prescrizione, ma non mi ha ricevuto (era lì, lo sentivo parlare) causa Covid. Sempre questo cazzo di Covid, usato come un ponte levatoio.
Allora ho chiamato la madre. Convive, saprà pure come fare.
Lo convinca a tornare in comunità, mi ha risposto.
Io?
Allora mi è uscita la voce grossa.
Venga qui ad aiutare suo figlio. E tanto ho fatto che l’ho persuasa.
Però.
Però, causa Covid, il ragazzo rientrando deve stare in isolamento. E lei non aveva i farmaci per tenerlo a casa almeno questo fine settimana. Quindi corri al Centro di Salute Mentale fatti prescrivere i farmaci in tempo utile dallo psichiatra che ora era collaborativo vai in farmacia porta Federico alla madre (e quasi me ne pentivo mentre andavo).
Poi ho chiamato la sua psichiatra di riferimento, chiedendo cosa si sta facendo per un suo possibile progetto di vita: e non ho avuto nessuna risposta confortante. Ho proposto che Federico venga da me, un week end al mese, sempre con i farmaci, per permettergli di sfiatare questo senso di oppressione . Ma non si può, in questa fase emergenziale.
Mentre lo accompagnavo in macchina dalla madre lo sentivo gridare al cellulare.
Cosa c’è Fed, mi sono informata.
Mi vuole portare in Tso.
Perchè, ho chiesto allarmata e arrabbiata, e stavo per girare il volante.
Perchè in comunità ci devo andare lunedi e lei vuole che io abbia i farmaci. Ma io non ci vado.No non ci vado non ci vado non ci vado.
L’ho rassicurato, il viaggio al Csm era servito almeno a procurargli la Quietapina per il giorno dopo, bastava che la madre lo accompagnasse a Csm di Monterotondo.
Ci parlo io, ho proclamato con l’ultima spavalderia che mi restava.
Quando siamo arrivati l’ho abbracciato e ho preso tra le mie le mani della madre, pregandola, come la santa che non era, di tenerlo con sé almeno per il week end. Ed ero sempre a un soffio dall’aggiungere: se no me lo porto a casa io.
Ho stretto di nuovo Federico nascondendo il mio viso tra le sue scapole,
Gli ho promesso che lo tirerò fuori da lì.
E mi sono sentita una traditrice e una ladra.
Quindi, ora, se c’è qualcuno che può aiutarmi ad aiutarlo… Aiutare me. A non diventare una bugiarda, una millantatrice, una codarda..
Sapete, quando si gira tanto per qualcun altro, i propri affanni sembrano per magia volatizzarsi. E poi… gliel’ ho promesso.