CARI COMPAGNI, MIMMO RUBAVA SU TUTTO

CARI COMPAGNI, MIMMO RUBAVA SU TUTTO

Il modo dei compagni di difendere il maneggione farabutto Mimmo Lucano, ha dell’incredibile: “Io lo conoscevo”, “era mio amico”. Un amico maneggione e farabutto secondo sentenza del Tribunale di Locri. Così anche la cantante Fiorella Mannoia, che non perde occasione per ribadire la sua pochezza, in un lungo e inutile scritto su Facebook. L’altra formula è: il bene non si processa. Il bene la distrazione sistematica di beni e servizi? I migranti come carne da cannone, tolti dai progetti di lavoro ma lasciati a lavorare, a questo punto in nero, per non perdere i 35 euro al giorno che ovviamente non andavano a loro? I finti matrimoni con le nigeriane cui venivano destinati settantenni definiti “uno stupido, un demente, un idiota mentale”? Non sono illazioni e non sono ricostruzioni della pubblica accusa, sono parole del santo guevarista Mimmo, intercettate da indagini proseguite per anni. Così la sinistra imbecille pronta a lapidare una vicequestore che si esprime a titolo privato; Mimmo invece poteva disprezzare l’infermità mentale ma restava apostolo del buono e del giusto. Ci sono casi in cui la diplomazia delle parole non può essere usata perché diventa subito complicità; allora diciamo che questa ipocrisia, neppure doppia morale, ipocrisia sconcia, fa schifo e fa ribrezzo; che meriterebbe qualcosa di peggio del disprezzo. La verità, una verità certificata suo malgrado dall’interessato, è che questo Lucano esce dalle sue stesse parole, oltre che dal suo operato, come un individuo pericoloso, senza morale, disposto a tutto per un potere personale che non nascondeva di volere raggiungere: era già pronto il percorso politico e forse è questo che gli rode di più nella sentenza che ne stronca le ambizioni. Qui non si tratta di qualche ingenuità, di essersi montato la testa, come dice il pur comprensivo procuratore di Locri, o di incapacità gestionale, qui si tratta di una propensione a delinquere sulla pelle di quegli ultimi dei quali si ostentava il salvataggio. Così come al Forteto, a Bibbiano, dove i santoni erano in verità mostri, la mole dei comportamenti devianti del santone Mimmo si era ingigantita a tal punto da obbligare a intervenire una magistratura distratta fino a che le è stato possibile; e ad onta delle protezioni politiche e per così dire intellettuali. Dietro Riace c’era il solito coacervo di ruberie, individui loschi, anime luride che oggi non si rassegnano e sbavano fiele. Ma le chiacchiere stanno a zero: di bene non c’era, c’era un sistema fondato sullo sfruttamento e la rapina, e c’era un individuo che, conti alla mano, rubava oltre l’inverosimile, dalle schede carburante alle spese vive ai soldi dirottati in banchetti e concerti ai programmi europei alle sovvenzioni governative, per incantare le delegazioni straniere che sciamavano ad apprendere i segreti del “modello Riace”. Ma di segreti non ce n’erano, c’era l’eterna, squallida storia del fallito che un giorno capisce come si fa a svoltare, comincia e non si ferma più fino a che non lo arrestano. Non c’è giudice che abbia potuto esimersi dal giudicare a vario titolo Lucano un individuo spregiudicato e pericoloso al punto da ordinarne l’allontanamento dal suo feudo. Non c’è magistrato che non inviti a considerare le risultanze d’indagine. E non c’è investigatore che non sia oggi nauseato dalle ricostruzioni parallele dei degni compari del santone Mimmo. Mentre, diciamocela tutta la verità, nella pletora dei sostenitori non se ne trova uno lontanamente stimabile o, per meglio dire: gentaglia, senza eccezioni. Certo, il costume è quello di mentire, stracciarsi le vesti, minacciare e fare camorra per disinnescare la verità: parliamo di verità processuale, ma nessuno ci toglie dalla testa il sospetto che il peggio di questa vicenda di ordinaria mascalzonaggine sia rimasto coperto: per dire, chi poteva organizzare un sistema di simili proporzioni senza appoggi di malavita organizzata nella terra a più alta densità mafiosa del mondo? Uno così era candidato nella lista di de Magistris, indifendibile perfino per una magistratura come quella italiana, che lo cacciò, e lo volevano per un incarico contro la mafia. Chi meglio di Mimmo il santone? Ma i nostri sospetti valgono quello che valgono, cioè meno di zero. Bastano e avanzano le prove emerse dal processo, sulle quali, vedi caso, nessuno dei compari del santone Mimmo si sofferma: glissano tutti, la buttano sul moralismo patetico, “il bene non si processa”. Il bene che sale dal male, sarà nostra sfortuna, non l’abbiamo ancora visto, abbiamo però visto fin troppe volte il male che alimenta il male e se ne nutre e se ne droga. Con la complicità di molti, di troppi moralmente altrettanto farabutti.

MDP

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