“credo in un solo padre” – la recensione

“credo in un solo padre” – la recensione
immagine a cura di Giuliano Fedeli

di Stefania Martani

L’otto marzo delle donne è fatto di parole, di scarpette rosse, di cantanti. È coreografico. Poi, sotto, c’è la realtà dei lockdown domestici che imbrattano le pareti di sangue, rosso sangue che nessuno vede, che si scopre quando è tardi. Mai così tardi come nel tempo della pandemia che cristalizza tutto anche l’orrore: crescono le vittime “in rosa”, gli appelli via telefono e chat tra marzo e giugno 2020 sono più che raddoppiati rispetto a un anno fa (+119,6%), passando da 6.956 a 15.280. Dicono gli esperti: la convivenza perenne, forzata, peggiora gli stati al limite, le situazioni borderline. Non ci voleva grande sforzo a capirlo, senonché i femminicidi, che è un termine politicamente corretto ma concretamente scorretto e stridente, tracimano, agevolati da certa qual distrazione istituzionale, “del sistema”: le forze dell’ordine invitano a farsi avanti, ma arrivano troppo spesso a madre morta, a moglie morta; poi certe sentenze dei tribunali tirano via, sono comprensive e così le sentenze dei media. Quello che ci manca è tutto il resto: una giustizia degna di essere considerata giusta. Quello che ci resta sono le madri in miseria, franate madri, e figli sottratti, dirottati alle comunità dai pubblici sussidi. Non c’è pronuncia in epigrafe di un delitto contro il femminile, che non ci lasci con un senso di gelo, un raccapriccio difficile. Di quale cultura sono il parto?<br>Una risposta prova a darla l’opera prima del regista salernitano Luca Guardabascio, il cui “Credo in un solo Padre”, prodotto da Around Culture, esce oggi 8 marzo sulla piattaforma Chili. È uno sguardo senza consolazione che risale dai semi della violenza sulle donne, avviluppa la loro condizione in una realtà ancestrale, preindustriale dove i rapporti sono diretti, viscerali e protetti da da radici di omertà. Nasce questo film dal romanzo “Senza far rumore” di Ferruccio Tuozzo, racconto di una modernità senza modernizzazione e senza decantazione, senza maturazione. Mondo arcaico depositato nel profondo nelle nostre coscienze, periferiche o metropolitane coscienze di risacca, di periferia dove si affastellano altre culture, importate; poi il marketing, l’immaginario pubblicitario cristallizza il tutto, perché è circolare, non evolve. Il film di Guardabascio parla di realtà, vicende vissute nella parabola di tre generazioni, quando i figli, tra cui Gerardo (Giordano Petri), il marito di Maria (una Anna Marcello davvero straordinaria), cercano fortuna in Austria lasciando al padre totem un potere dispotico sull’intera tribù: il paese sta a guardare, il paese è complice.
Lo sfondo si aggira tra le falde dell’Appennino lucano al confine tra Campania e Basilicata e certi luoghi del salernitano: qui affiorano Flavio Bucci (scomparso il 18 febbraio del 2020), Massimo Bonetti (il padre padrone) Anna Marcello, la nuora abusata, insieme ad attori non-attori che quelle violenze le hanno subite davvero, al punto da venire sostenuti sul set da una psicoterapeuta, Elena Fattorusso. Dal film come opera di denuncia al progetto formativo, propositivo: racconta Guardabascio che l’esperienza ha dischiuso per alcuni le porte di occupazioni legate al mondo del cinema: fonia, sartoria, eccetera. Francesco Baccini, un altro fra i protagonisti, ha scritto la colonna sonora e si è speso in tour. Claudio Madia, fondatore della Piccola Scuola di Circo, ha battuto le scuole per sensibilizzare. Un film che non finisce, si protende nella cronaca insanguinata di ogni giorno, tenta di arginarla. “Credo in un solo Padre” si è già guadagnato riconoscimenti e nomination, dal Queen International Film Festival di Los Angeles all’Alternative International Film Festival di Toronto.