GIOCARSI LA SCUOLA A DAD

GIOCARSI LA SCUOLA A DAD

immagine di Giuliano Fedeli

di Stefania Martani

Ragazzi, ma vorreste continuare così, a distanza, in dad?

La domanda l’ho posta io, oggi, alla mia classe, una delle migliori che mi siano capitate, un gruppo solidale, compatto, composto da alunni che vogliono lavorare, e che infatti frequentano una sezione del linguistico a cui, alle lingue europee, è stato aggiunto anche il giapponese.

Io insegno latino e storia, in questa classe, e potrei essere vista un po’ come un bruscolo nell’occhio a chi è versato per le lingue parlate, europee e non, eppure, almeno a quanto avverto, mi amano. Insomma, piaccio e mi piacciono. Un bel dialogo, belle interazioni, comprensione, scambio. Io in questa classe mi sento a casa, avvolta da una sorta di coperta calda di affetti che ricambio a 360 gradi.

E mi mancano. Li avevo ritrovati a settembre, per riperderli a novembre e rincontrarli travasati per l’ennesima volta su un desktop, mere presenze bidimensionali quando accendono la telecamera, se l’accendono, o punti luminosi che mi ricordano la bolgia dei consiglieri fraudolenti dell’Inferno di Dante, in cui il corpo etereo capace di sofferir caldi e geli, è involato e nascosto dalla fiamma, e allora solo la voce supplisce. Guardarli negli occhi. Sì, lo so che da regolamento dovrebbero tenere le telecamere accese, ma, sia perchè google suite li oscura in automatico quando gli pare, sia perchè un poco ci marciano, il più delle volte si parla a baluginanti cerchi colorati.

Fatto questo preambolo, mi interessa sapere se ci starebbero a rientrare o se a loro va bene così. Glielo domando anche perchè temo moltissimo l’instaurarsi della sindrome della capanna, il timore di uscire e relazionarsi , la fobia sociale, che farebbe agio a questo universo segregativo e concentrazionario che non riesco ad accettare: insomma, i ragazzi sono in crescita, che danno evolutivo, oltre al quello formativo e culturale, può sortire dall’azzeramento o quasi della socialità, della relazione? Il nostro sistema nervoso si è evoluto anche grazie alla capacità di affrontare l’altro, di raccontarci, di studiarci e trovare l’espressione che getti un ponte tra l’io e il noi.

Quando spiego la scoperta del fuoco, nel primo anno, mi piace portarli a immaginare le orde primitive riunite intorno alle cataste ardenti, mentre ai margini preme la notte e i fruscii, i ringhii delle fiere, che, in quella sfera di luce e di calore si raccontano l’ultima caccia, la mimano e la mettono in scena e si tramandano così le tecniche, i saperi. La tradizione, da trado, consegno, è un fatto sociale. visto che il suo supporto è stato in primo luogo la parola, il racconto, nel famoso circuito aurale. Io così non ho nessun ritorno, non capisco se capiscono, e ho paura, spesso, che anche la mia empatia giunga loro sbiadita, smorzata, neutralizzata e rarefatta.
Rispondono: vogliamo tornare, ma in sicurezza.

Cosa intendete per sicurezza, chiedo.

Non vogliamo, dopo pochi giorni, essere rispediti a casa.

Infatti il nodo è questo. Oltre al timore di trasmettere un virus, per la stragrande maggioranza dei casi assolutamente asintomatico o con disturbi lievi, temono questo ripetuto shock da separazione. Ci siamo ritrovati, ci siamo riuniti, e ora, al primo positivo, a casa,

Non ce la fanno. E’ stato chiesto loro troppo, non possono tollerare altri traumi. Che si torni, ma per sempre, nel senso che questa parola ha nella loro percezione del tempo scolastico.

Un adulto deve essere affidabile, garantire presenza.

Lo stesso si chiede all’istituzione che dagli adulti è stata pensata, forse tradita, nel senso iscariotico del lemma, per loro.

In effetti, se quel che i ragazzi desiderano di più è l’inclusione (far parte di è una necessità evolutiva, legata all’istinto di sopravvivenza- per poi distinguersi da, trovando così il giusto mezzo tra esser-ci ed essere), terribile deve risultare loro questo continuo tira e molla, questa socialità a sprazzi, strattonata, come da bimbi in balia di genitori imbecilli, incapaci di accudirli, abbandonici, una sorta di tortura morale alla quale si sottraggono per sfinimento.

E, francamente, io sono con loro. Che si torni, ma per restare.