IN MEMORIA DI ENRICO VAIME

IN MEMORIA DI ENRICO VAIME

di Daniela Tuscano

n verità non sapevo molto di lui. Un titolo su tutti bastava: “Amare significa”, ben più d’una semplice parodia di “Love story”, lacrimevole best-seller americano anni ’70. Una storia d’amore all’italiana, o meglio brianzola, periferica e lunare, nebbiosa e onirica. Anche quando, in anticipo di 40 anni, smascherava i luoghi comuni della gauche-caviar, lo faceva con levità, senza moralismi. A queste latitudini la morale è azione e l’assurdo sta qui, nel manovale senza qualità capace d’irretire, suo malgrado, un’obesa ereditiera yankee, marxista in Rolls-Royce e aspirante cantante (“le ricche hanno meravigliose voci da mondina che le mondine non hanno più”, è la spassosa e implacabile sentenza). Enrico Vaime era tutto in quel romanzo, e quel romanzo era il nostro mondo, la fabbrica, il dopolavoro, il posto fisso e tuttavia precario; un paesaggio brullo dove i sogni restavano segreti, per poi esplodere, inopinati, come bolle di sapone, madeleine proustiane sulle rive del Lambro. Vaime, perugino, aggiungeva un disincanto socratico alla saporosa solidità del milanese Terzoli, fido compagno di ribalderie. Diversi e uguali, i due disegnavano la geografia d’un’Italia forse lacera, ma non priva di provinciale dignità. L’Italia del Giambellino e del Derby, di Cochi & Renato e del Carugati; l’Italia minima e lucida di Flaiano; ma prima ancora, e su tutte, l’Italia dei Totò. Funambolici e tersi in “Miracolo a Milano”, poeticamente folli in “Che cosa sono le nuvole”, col principe De Curtis che declamava Baudelaire. Estranea, comunque, al paese in dissolvenza nel quale oggi ci aggiriamo smarriti. <br>Non sapevo molto di Vaime perché già l’avevo dentro. O magari era lui ad avermi sognata anni prima, un pomeriggio d’autunno, l’occhio grave e stupefatto.