MARCHE, TORMENTO INFINITO

MARCHE, TORMENTO INFINITO

Non mi ero mai accorto che la grande piazza avesse un’acustica così perfetta. Ci abbaia il mio cane e i latrati festosi si distendono in una vertigine di riverberi. Alberico Gentili, gloria patria, guarda impassibile dal suo monumento; tutto è vuoto qui, tutto è deserto. San Ginesio, entroterra maceratese, 700 metri di altitudine a custodire storia e leggende oscure, colonia romana e faide medievali, rinascimentali con Fermo, religiosità forte e magica, le ossa di Pipino il Breve seppellite da qualche parte, san Ginesio Balcone dei Sibillini, della Sibilla Picena, specchiato negli Appennini che, per parafrasare Elias Canetti, lo guardano, lo guardano, e non sono mai caduti, san Ginesio Bandiera Arancione, tra i borghi più belli d’Italia. Uno di quegli scrigni che riempiono le Marche, ma non lo saprai finché non ti stacchi dal litorale e ti perdi nella galassia di minuscoli villaggi.

San Ginesio è l’emblema di una regione piegata, piagata, sconfitta. Dimenticata. Prima i due scrolloni, terribili, devastanti, del terremoto fra la tarda estate e l’autunno del 2016; poi la ricostruzione mai stata, annunciata da commissari puntualmente PD – quella Paola de Micheli, che pareva Gassman vescovo: annamo, rifamo, e invece niente -; zona rossa perenne, sulla quale è piovuto il Covid, alla seconda ondata oltre 100 contagiati su duemilacinquecento superstiti, all’incirca: qui il terremoto svuotò, poi qualcuno tornò, adesso si resiste languendo, molti trasferiti in condomini nuovi perché le loro case aspetteranno interventi chissà per quanto.

Di niun domani v’è certezza, salvo una: sarà un altro giorno uguale a ieri, di estenuante rassegnazione. Da quattro anni le pratiche si accatastano, ma qui, come in tutti gli altri centri feriti, manca personale e le ordinanze invece crescono, rigogliose, minacciose: “Oltre cento” mi dice un tecnico, un ingegnere addetto alla ricostruzione “e ovviamente confliggono le une con le altre”. Sì, ma a che punto è la ricostruzione-Godot? “Il nuovo commissario straordinario, Legnini, sai quello del CSM, ha impresso sì una accelerazione forte, ma solo sulla carta. In sostanza, si autorizzano i lavori salvo verifiche in corso d’opera. Ma qui nessuno vuol rischiare, ci sono conformità, risvolti, situazioni che vanno chiarite prima, altrimenti ci andiamo di mezzo tutti e poi i contenzioni vanno avanti anni e qui nessuno può permettersi una simile pressione, né finanziaria né psicologica”. Quindi tutto fermo o quasi. Il tecnico si addentra in complicate disquisizioni fra ricostruzione pesante e leggera, della quale il cronista non capisce niente ma prova a riassumere così: che la leggera, privata, è pressoché al palo, per molte ragioni e l’altra, quella pubblica, sarà l’ultima a venire. La piazza Alberigo Gentili ospita un teatro meraviglioso, le Marche son terra di teatrini gioiello, acustiche pazzesche, incanti di ogni sera: dal 26 ottobre 2016 il teatro è chiuso, ridotto all’immensa bocca sdentata di un gigante. C’era un’assicurazione, due milioncini di euro, hanno preferito dirottarla su altre strutture, l’Auditorium e invece del teatro Leopardi c’era un disperato bisogno, in un borgo da due, tremila anime il teatro è cuore e anima, qui venivano ospitate fino al sisma stagioni artistiche, cartelloni che venivano assessori di tutta Italia: ma come fate, con due soldi, a permettervi tanto?

Era la formula del “teatro ospitale”, l’artista coccolato, rifocillato, perfino viziato, ma alla buona; a contatto col pubblico per tutto il giorno, prove e cena, intervista-verità prima dello spettacolo, happening dopo: quelle notti di san Ginesio, centinaia di persone nella neve, entusiaste dopo un concerto. Qui è passato il meglio della prosa e del rock indipendente, decine, centinaia di nomi e tutti hanno chiesto di tornare. Spesso “a incasso”, niente cachet, mi date quello che riuscite a incassare, ma tanto il teatro si riempiva. E adesso, quando li raggiungi in giro per l’Italia, ti riconoscono subito: “Ohè, san Ginesio! Allora? Ma quando riaprite lassù, che voglio tornare?”. E ai ginesini viene il magone, perché non sarà facile riaprire. Antonio Rezza, il teatrante allucinato, è tra i più affezionati e orfani di questo scrigno.

San Ginesio delle cento chiese, tutte sbarrate da quattro anni. Neanche ci si può raccomandare contro il morbo. Qui gli anziani regnano e molti si contagiano, chiusi in casa o smistati per ospedali, a Macerata o fino alla costa di Civitanova Marche dove c’è il centro specializzato voluto da Bertolaso. Non tutti hanno avuto fortuna, sono a pranzo con un amico che ai tempi del teatro ospitale faceva l’assessore alla cultura, è lui, Simone, che si è inventato quel prodigio, il ristorante “la Cantinella”, tra i pochi superstiti, è vacante di vita tranne noi. ai tempi, cento e più avventori prima o dopo un concerto. Davanti a un piatto di tortellini al fumé, cucina rigorosamente casalingua e per questo meravigliosa, Simone mi va raccontanto del suo Covid, chiuso in casa per quaranta giorni, febbre e spossatezza “ma non tanta, sai, più che altro il non poter uscire, non contagiare altri in casa, ci eravamo appena trasferiti e abbiamo beccato il Covid io e la figlia, l’altro figlio e la madre invece salvi”. E di colpo riceve una telefonata, si rabbuia: “Ah. Non ce l’ha fatta. Poi è morto così solo. Un altro”. Chiude e scuote la testa e non ha più voglia di mangiare, di parlare. Un’altra vittima. L’apicoltore, amato da tutti, ottant’anni di salute e di vita. Lo avevano ricoverato che non respirava un mese fa, le ultime parole al figlio: “Non lasciarmi qui da solo”. Adesso i contagiati in totale sono scesi a 8, ma la falcidie c’è stata, l’ondata ha travolto le macerie.

San Ginesio incerottata dentro e fuori, non c’è palazzo che non abbia le travi di legno e d’acciaio, i cerotti di ferro, una quinta orribile ma tanto non si vede nessuno. I due bar in piazza che non si contendono clienti. L’albergo che aveva appena riaperto e il terremoto lo crepò. I rari negozi che si ripiegano nella disperazione calma, come quella del “viaggiatore cerimonioso” di Giorgio Caproni. “Vedi, qualcosina si fa. Se pensi che a Camerino è tutto fermo; che a l’Aquila undici anni dopo non hanno tirato su ancora neanche una scuola”. Anche qui c’era la scuola da ricostruire, ma i soliti cavilli o dispetti tra burocrati hanno lasciato una voragine di lavori mai intrapresi. Intanto è cambiata la giunta, Simone non è più assessore, il sindaco di prima, Mario Scagnetti, si è ammalato ed è morto in pochi mesi: stress e dolore, qui chi ci nasce sente il paese come padre e figlio e muore con lui. Tanti sono morti in questi quattro anni, tanti sono andati perché qui non si poteva più vivere. E, da allora, se incontri qualcuno, ti parlerà solo del terremoto, entità maligna, sempre presente. Terremoto e Covid, adesso. Quanto deve sopportare ancora questa gente senza un Dio della provvidenza? Le Marche sono tutte così, le sue San Ginesio, Ussita, Visso, Camerino, Tolentino, Arquata, Monte Monaco, sono così. Nessuno lo sa, nessuno lo dice, questa regione piccola e lunga, di raccordo, ponte fra nord e sud, collegamenti difficili, infrastrutture faticose, una crisi endemica da dieci anni, che ha eroso impianti industriali come la filiera della calzatura, è in apnea dal monte alla costa. Il governo vuol ripartire dal “turismo di prossimità” ma nei fatti succede il contrario, borghi, villaggi di sogno, già spopolati sono stati completamente lasciati a loro stessi, cause perse lungo il sentiero delle chiacchiere. Non torneranno. San Ginesio siamo noi. Il cane manda un ultimo latrato, lugubre come sirena. È il mezzogiorno di un sabato prenatalizio, ma in questa piazza ridotta a parcheggio semivuoto, il tempo non si è fermato. Si è divorato.