RENATO ZERO 70 ANNI E UNA VITA IN PIU’

RENATO ZERO 70 ANNI E UNA VITA IN PIU’

Lo chiamavano Renato Zero. Lui s’è fatto uno e trino: a 70 anni, 55 dei quali spesi sui palchi, sempre affamato di trasformazioni (“sono io il vero camaleonte che ha giocato col fuoco e l’ha addomesticato”, sfotte tutti gli Achille Lauro del mondo), si ritrova compresso in casa causa lockdown e tira fuori una trilogia: tipico di lui, non darla mai vinta a nessuno, fosse anche un virus. Ha rovistato nei cassetti pieni di provini, ha completato, riscritto, spremuto nuovo materiale. Poi l’ha fatto uscire a scadenza, uno il giorno del suo settantesimo, 30 settembre, il secondo un mese dopo, infine l’ultimo, un mese dopo ancora. Trentanove brani, una follia, l’ennesima: Zero ormai può farlo, si è svincolato dal business discografico nel 2009, si è fatto egli stesso casa discografica, scontando non pochi e non lievi errori di produzione ma infine demiurgo dell’arte sua: nessuna interferenza, il padrone del giocattolo Zero sono io.

Tre dischi che poi son doppi, in tempi vintage sarebbero stati sei vinili: manco Frank Zappa ha osato tanto. Perplessità fin che ne vuoi, perché una produzione così massiva rischia fisiologicamente il fondo del barile e perché le ultime uscite non furono esattamente irresistibili. Invece, in questo botto più grande, quasi tutto funziona come non si sentiva da anni; da decenni. Torna la vecchia magia di quando un disco di Renato Zero era una scatola delle meraviglie, da scartare con cura, da inzuppare nei giorni: qualcosa che entrava nella vita di ciascuno, che teneva compagnia, divertiva, confortava, stupiva.

Certo, assurdo sarebbe aspettarsi il Pierrot feroce e tragico di Mi Vendo, del Baratto, del Triangolo: il punto è l’atmosfera, il tirar su la rete con impigliato tutto, lo sconfinato passato mescolato all’oggi: missione compiuta. Davvero qui i tempi di una carriera per molti versi irripetibile si mescolano, si confondono. Con “Zerosettanta” Renato conquista definitivamente una terra promessa, mette a fuoco molte idee non tutte nitide, marca una cifra artistica personalissima: questa è la favola sua e sua è la musica, inconfondibile, ostinatamente italiana, un pop che oscilla ora sul crinale del rock, ora del melodramma fino alla romanza, sberleffo e canzone d’autore, qualche timida tentazione sperimentale, evocazioni di sirtaki o di Mina, Gabriella Ferri o Piazzolla o Aznavour, molto classicismo e qualche manierismo; è lui, punto.

Assurdo aspettarsi 39 capolavori su 39 brani. Diciamo però che, scegliendo fior da fiore, Zero avrebbe potuto selezionare il meglio, una dozzina di episodi a coagulare il classico disco della Madonna: no, ha voluto tener niente per sé e ha fatto bene, c’è una media che è sempre alta, il valore aggiunto di questa cornucopia non sta nelle pur clamorose Come fai, Il linguaggio della terra, Come non amarti, L’amore sublime, Ti ricorderai di me, Io e te, per citarne a volo qualcuna; sta nella ridondanza, nel caleidoscopio di un canzoniere sconfinato – questa è la stazione n. 44 di un viaggio intrapreso nel 1973. Sta nel prendere in blocco uno che non s’è mai rassegnato al ruolo da comprimario ed è stato generoso fino allo spreco di sé, nei pregi e negli sbagli, nell’esagerazione di una provocazione feconda così come nella pedanteria di un predicare da santone. Ma qui dentro c’è tutto e di tutto, solo con più misura, con ancor più sincerità: Renato non dice più che avere una certa età è come avere due, tre volte vent’anni, ammette la senilità, scopre le piaghe, riconosce la “poca allegria”, l’orizzonte che si restringe, la nostalgia e la solitudine ormai irredimibili, evoca perfino foschi presagi di sparizione; subito dopo, molla in faccia un santo schiaffo d’ironia, In manette l’astinenza, è oltraggiosa da fare arrossire le stesse leggendarie Sbattiamoci o Sesso o Esse, Finalmente te ne vai è ruffianamente beat, riporta ai Nuovi Angeli, a un’epoca di fumetti kriminali, di beato scazzo giovanile un po’ irresponsabile.

Ha rimescolato lo staff Renato Zero, ha arruolato autori giovani, come il prodigioso Lorenzo Vizzini, recuperato dall’oblio un ispirato Dario Baldan Bembo, ha scritto tanto lui stesso, la produzione, sorvegliata da Phil Palmer, che compone parecchio insieme ad Alan Clark, entrambi già nei Dire Straits di Mark Knopfler, assicurano quel dinamismo armonico che nella produzione recente s’era appesantito; se ne giovano anche le liriche, che scontano, si capisce, qualche cliché zeriano ma per lo più risuonano ispirate, con punte di schietta poesia. E il suono è bello, pieno, nitido, potente e gli arrangiamenti, controllati dal Maestro Adriano Pennino, sono sfarzosi ma non così barocchi, c’è, per dire, un uso degli archi che è molto calibrato, finalmente non tracimano: assecondano, sottolineano. La melodia è sovrana, per diretta ammissione, è una polluzione.

Zerosettanta è, per parafrasare Lester Bangs (a proposito dei Rolling Stones), il primo album di Renato Zero senza un significato, e grazie a Dio. Quanto a dire che Zero a questo passo di una carriera inestricabile dalla vita, dev’essersi detto: ma sì, ho inseguito tutto, conquistato tutto, perso tutto, riavuto tutto con gli interessi, non debbo più convincere nessuno, né le classifiche, né il pubblico, né i critici, affanculo, un triplo album, che mi frega, lo faccio per me. Ed è uscito qualcosa che sorprende perché a 70 anni, dopo più di quaranta dischi, tirar fuori questa motivazione, questa ispirazione, piena di tutto ma rigorosamente, sdegnosamente aliena dalla mode trappettare del giorno (anzi spietatamente polemica), è davvero un’avventura sorprendente. Non chiamiamola seconda o decima o eterna giovinezza, chiamiamola maturità irrendenta. Chiamiamole orgoglio queste tre ore che si possono ascoltare d’un fiato, avendo tempo, o un po’ alla volta, seguendo la scaletta o perdendosi a caso tra i pezzi, tanto omogeneo è il tutto. Non sarà la fine, non sarà il canto del cigno, altri dischi verranno, altri tour, governo di dementi permettendo, verranno, questo animale da palco non lo domi: nei suoi scarti, alienazioni e non innocue pazzie, nella sua pelle di romantico è stato una delle rarissime, autentiche rockstar italiane. Adesso indossa una favola ingombrante e ci fa i conti: questa trilogia assurda e mirabile è qui per certificare che, a questo punto, Renato Zero è absolutely free e di questa libertà, sconfinata e impegnativa, sa benissimo cosa farsene.