SOTTOCHIAVE

SOTTOCHIAVE

Quante volte ci hanno martellato la mente con la predica più ingiusta, il ricatto più vile, bisogna tornare primitivi, essenziali, ribellarsi al consumismo, perché noi abbiamo rovinato tutto, perché la natura che si nutre di caos non tollera la nostra umiltà. Quante volte ci hanno insegnato che si doveva edificare il nuovo mondo, l’uomo nuovo, la società egualitaria per mondarci delle nostri giorni zoppicanti. Ecco ci siamo. Dentro ci siamo. Sottochiave, neanche più un vizio, un desiderio. Proibito un dono, il lusso dell’aria, la stessa libertà. Più essenziale di così. Tutti stretti nella miseria e nella mestizia. Più uguali di così. Quasi tutti, sotto ogni tirannia ci sarà sempre chi se la cava, chi è più uguale. La volevate la società antagonista dell’incubo industriale, edonistico: eccola la società sovietica, ecco l’inverno che non è del nostro scontento, è della disperazione. Il lungo inverno russo che non passerà. La prigionia si allunga, ci affoghiamo dentro. Figli di un decreto. Pipistrelli delle ombre, boschi di strade senza uscita. Cani sotto la pioggia dell’inverno. Quella stanchezza addosso, che ci ubriaca, spossatezza di tutto e di niente. Quel dolore che non si riesce a spiegare, a sconfiggere. Malati di distanza, di occasioni perse. Inverno nell’inverno, senza consolazione, privi di un senso, di una prospettiva e perfino una luce diventa insopportabile. Crudele e beffarda, quasi spaventosa. La società degli uguali, niente a tutti, niente a nessuno e sempre quella sensazione di essere spiati, insidiati, anche in casa, anche davanti a uno schermo non ti senti al sicuro: possono spegnerti, violarti. Nessuna ambizione più, nessuna avventura. E sentirsi in colpa per colpe mai commesse, per quello che racconti e per ciò che non puoi dire. Perfino per l’amore. Dove sarà il sole, oltre quale labirinto nero? Oltre quale calendario senza giorni? Facce distanti decidono la tua disperazione con un colore, un tratto di penna allunga l’agonia: sei segnato, condannato. Sei spacciato. Più umiliati di così. Ecco la società della negazione, ecco la salute dello spirito che non trova più altro da sè. Ma a che serve uno spirito drogato di sè, malato di sè, senza niente da costruire? Condannato a riflettersi nel suo pensiero? Come si può essere lieti in catene? Ma che uomini sono quelli che si lasciano andare sopra un letto e non si agitano, e vegetano, e le piante che sono diventati seccano senza mettere foglie? Poi ti invitano alla fede, alla provvidenza, ma cosa offrire a un Dio vorace e distratto, cosa se ne farà mai questo Dio imbroglione e indifferente delle nostre lacrime? E perché non si contenta mai della gioia che infingarda ci concede? Dov’è la sanità di chi si rassegna, si consegna a un destino che non c’è? Nere lenzuola di pioggia spazzano i pensieri; non succede niente, ogni passo risuona di un clangore immane. Uscire, restare: niente ha una logica, perché niente è più scelta. Da questa espiazione non fugge nessuno, da questa chiesa di dolore non esce nessuno. Il possente portone non lo apre nessuno. Monasteri di lacrime sono le nostre anime. Lasciatemi qui, non ho più forza da donare, voglio solo finire. Dentro affogo: lasciatemi affondare, non ho più parole, non ho voglia di dibattermi, questa farsa che si chiama vita è giunta al compimento e se ne va come è sempre stata. Senza sprazzi di felicità, colma di penitenze senza peccati.

MDP